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Valori liberal e principi conservatori. La sentenza della Corte Suprema Usa sul gay marriage

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di FEDERICO BRUSADELLI – Accomunate dal destino, la politica italiana e quella statunitense si ritrovano a dover fare i conti con due sentenze. Ma se da noi ci si interroga sulle notti di Arcore, sui misteri del bunga bunga, sulla sincerità di Carlo Rossella e più in generale sulla ventennale vicenda giudiziaria personale di Silvio Berlusconi, al di là dell’Oceano si vola forse un po’ più in alto: la Corte Suprema di Washington, con due verdetti emessi a pochi minuti di distanza ed entrambi con una maggioranza di cinque a quattro, si è espressa con chiarezza sull’ormai annosa questione delle nozze gay.

Con un verdetto scritto dal giudice Anthony Kennedy, il “Defense of Marriage Act” del 1996, con il quale si sanciva la sola ed esclusiva eterosessualità dell’istituto matrimoniale, privando dei benefici federali le coppie sposate dello stesso sesso, viene dichiarato “incostituzionale” perché “viola la pari tutela davanti alla legge della libertà di tutti i cittadini, protetta dal Quinto Emendamento” ma anche perché “viola il diritto degli Stati di legiferare sul tema del matrimonio”. Quanto al bando delle nozze gay in California, deciso per referendum nel 2008, i giudici hanno ribadito il loro orientamento in favore dell’abolizione, sottolineando però (proprio per il succitato “diritto degli Stati di legiferare sul tema”), che a esprimersi dovrà essere una corte californiana.

“Un risultato liberal incartato in valori conservatori”, sintetizza brillantemente il National Journal riferendosi al robusto richiamo, presente in entrambe le sentenze, all’autonomia degli Stati e all’impossibilità del governo federale di imporre loro la propria visione, valoriale e legale, del matrimonio. Il Governo Federale – si legge nella sentenza firmata Kennedy – ha trasferito agli Stati la legislazione relativa alle relazioni tra i suoi cittadini e residenti. Con il DOMA, però, le coppie sposate dello stesso sesso devono sopportare in maniera pubblica e visibile il peso di scelte decretate dal governo federale”.

Non è “solo” questione di libertà personale, dunque, che pure è tema fondamentale, come pure viene ribadito più volte nella sentenza richiamando i valori fondanti della Costituzione americana: in gioco c’è anche un nodo assai caro ai “conservatori”, ovvero la natura stessa degli Usa, e in particolare la difesa dell’autonomia degli Stati dalle eccessive ingerenze di Washington. Sono temi, questi, tradizionalmente presenti nella piattaforma repubblicana più che in quella democratica, e che – almeno in America – dovrebbero dunque convincere l’opinione pubblica “di destra” quanto quella “di sinistra”.

Non è così perché, in ragione di uno strano contorcimento ideologico, per il mainstream del conservatorismo americano (e non solo, peraltro, come ci insegna spesso anche il dibattito nostrano) le intromissioni dei governi centrali sono da combattere se riguardano le tasse e la spesa (vedi la battaglia sull’assistenza sanitaria) e da sostenere se toccano i cosiddetti “valori” (vedi aborto e, appunto, matrimoni gay).

Dunque già si intuisce dalle prime ore di dibattito post-sentenza quanto sarà accesa la polemica mossa dai settori più conservatori, e più religiosamente connotati, del Partito repubblicano contro lo scivolamento “liberal” del Paese guidato da Obama. Il quale nel frattempo non può che esultare: “Applaudo la decisione della Corte Suprema di abolire il Defense of Marriage Act perché si tratta di una legge che discrimina – dichiara il presidente in visita ufficiale in Africa, poco dopo aver twittato #loveislove – trattando le coppie gay e lesbiche come se fossero di una classe inferiore. La Corte Suprema ha corretto quanto era sbagliato ed ora l’America è un posto migliore”.

In campo repubblicano si va dalle dichiarazioni di guerra degli opinionisti di Fox News e dei gruppi fondamentalisti religiosi, alla reazione ferma ma pacata dello Speaker del Congresso John Boehner (che alla “delusione” nei confronti della decisione affianca una difesa del sistema americano di “check and balances” e l’augurio che “nell’agone pubblico prosegua un robusto dibattito sul matrimonio”), alle riflessioni del giudice Anthonin Scalia, contrario alla prima delle due sentenze (il quale lamenta che “dichiarando formalmente nemico della dignità umana chiunque si opponga al matrimonio omosessuale, la maggioranza della Corte arma di fatto anche chi contesta le leggi statali che restringono la definizione del matrimonio come istituto eterosessuale”), fino alla cautela di chi sa che il partito non può impiccarsi a una battaglia ideologica che – lo dicono i sondaggi – si profila sempre più come una battaglia di minoranza. E in una realtà fortunatamente complessa come quella repubblicana, non mancano ovviamente i sostenitori della “storica” decisione. Come l’ex vicepresidente di Bush, Dick Cheney, per il quale “freedom is freedom for everyone”.

Da noi, invece, nonostante le buone intenzioni che si muovono ora anche nel centrodestra (vedi la proposta del deputato del Pdl Galan sulle unioni omosessuali) è facile prevedere che anche questa legislatura abbandonerà il tema nel limbo delle questioni irrisolte, lasciando ancora una volta l’Italia tristemente indietro rispetto al resto d’Europa. D’altronde serve “ben altro” per uscire dalla crisi – ci dicono i conservatori de noantri – che non un “robusto dibattito”  (per dirla con Boehner) sui cosiddetti “diritti civili”. Insomma, quel che oggi domina la scena pubblica della prima potenza mondiale da noi non trova tempo e spazio. Di altro, di “bel altro”, ci siamo dovuti occupare negli ultimi anni. Di far dire al Parlamento che Ruby era la nipote di Mubarak e di capire se Berlusconi ci è andato a letto, per esempio.


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